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31 dicembre: il banchetto di Giano

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Le origini Romane

Ogni anno ci sediamo a tavola la sera del 31 dicembre convinti di partecipare a una festa moderna, fatta di spumante, fuochi d’artificio, vestiti eleganti, disgrazie da dimenticare e grandi speranze per il futuro. In realtà, ogni volta che solleviamo il calice o serviamo una porzione di lenticchie, stiamo ripetendo gesti che hanno oltre duemila anni.

Nell’antica Roma arcaica l’anno iniziava a marzo, quando con l’arrivo della primavera la natura “rinasceva”, ma già nella tarda età repubblicana il 1° gennaio era diventato l’inizio ufficiale dell’anno civile: era il giorno in cui entravano in carica i nuovi Consoli, in tempo per prepararsi alle campagne militari che cominciavano di solito in primavera.

Fu poi Giulio Cesare, nel 46 a.C., a riformare definitivamente il calendario, dandogli una struttura solare più stabile aggiungendo ben 67 giorni extra per allineare le stagioni, ma confermando il fatto che l'anno dovesse iniziare con il mese di Gennaio, dedicato a Giano (Ianus), il dio bifronte. Giano era la divinità dei passaggi, delle porte e dei ponti: con un volto guardava al passato (l'anno appena trascorso, con i suoi eventi nefasti da lasciarsi alle spalle) e con l'altro guardava al futuro (quello in arrivo, per il quale fare promesse e nutrire speranze).

Da questa dualità nasce l'essenza stessa della cena di Capodanno: è allo stesso tempo un addio e un benvenuto.

Fichi, miele e datteri

Per i Romani, il primo giorno dell'anno era un presagio per i restanti 364. Era fondamentale quindi che il 1° gennaio fosse "dolce", affinché tutto l'anno seguisse lo stesso tenore.

Sulle tavole romane non potevano mancare fichi secchi e datteri, simboli di abbondanza. Il miele veniva poi offerto in piccoli vasetti di terracotta per augurare che l'anno fosse privo di amarezze.

In ultimo, le Strenne: il termine che usiamo ancora oggi per i regali natalizi deriva dalle strenae. In origine erano rami di alberi propiziatori (alloro, ulivo, fico), ma ben presto divennero doni edibili scambiati tra amici e parenti come simbolo di fortuna.

La lenticchia, ovvero il “portafogli edibile”

Ma quello che forse è il principale elemento che unisce ancora i capodanni dei Romani alla nostra tavola di oggi, è la lenticchia.

Già allora, era costume regalare lenticchie come auspicio di abbondanza, essendo un cibo resistente, accumulabile per i mesi invernali difficili; regalare lenticchie significava, in una società agricola povera, regalare sicurezza per il futuro. Su questo nasce poi l’immagine (medievale però) di regalare una scarsella piena di legumi, come simbolo del denaro che si vuole augurare riempia la scarsella stessa.

Oggi abbiamo tolto la sacca di pelle portamonete, ma continuiamo a servire lenticchie nel piatto perché “portano soldi”.

Cotechino e zampone: arriva il grasso

Dopo la caduta di Roma, la tradizione del Capodanno si frammentò, ma resistette nei secoli, arricchendosi di nuovi elementi caratteristici. Uno di questi era il grasso, proveniente dalla carne del maiale. Era simbolo di ricchezza e prosperità, la stessa che si augura appunto per l’anno nuovo.

Nascono e vengono consumati nei capodanni di fine medioevo alcuni insaccati che resistono ancora oggi. Il primo è il cotechino (collocato dalla tradizione nel Ducato di Modena), che inizialmente era considerato un insaccato "povero", perché veniva preparato con le parti meno pregiate del maiale (come la cotenna, da cui il nome cotechino) tritate e speziate. Il secondo è lo zampone, “figlio” del cotechino che la leggenda fa risalire all’assedio di Mirandola del 1511, durante il quale per non sprecare nulla si cominciarono a usare le cotenne delle zampe del maiale per insaccare la carne trita.

Cotechino e zampone vengono poi citati nella letteratura come alimenti sempre più “nobili”, fino alla consacrazione da parte di Gioachino Rossini, che in una famosa lettera scritta nel 1845 a un suo fornitore, chiedeva con urgenza: "Quattro zamponi e quattro cotechini, ma che siano della più squisita qualità!". Rossini li serviva ai suoi leggendari banchetti parigini, portando questi prodotti "popolari" nel cuore dell'alta società d’oltralpe.

Perché 12 chicchi d’uva?

Dopo le lenticchie e il grasso del maiale, il terzo pilastro della tavola di Capodanno è l’uva. Se oggi la consideriamo un portafortuna quasi magico (“chi mangia l’uva per Capodanno, conta i quattrini tutto l’anno”), la sua origine è in realtà una lezione di previdenza.

Troviamo in manuali di economia domestica e agronomia del XVIII e XIX secolo le prime attestazioni sistematiche dell’usanza domestica di consumare uva a fine dicembre. In un’epoca senza frigoriferi e serre, riuscire a portare in tavola l'uva a fine dicembre era una vera e propria sfida tecnica, infatti. I contadini selezionavano i grappoli migliori in autunno e li appendevano in luoghi freschi e ventilati, come le cantine o i solai, controllandoli uno ad uno affinché non marcissero. Mangiare l’uva a mezzanotte del 31 dicembre significava dimostrare di essere stati bravi amministratori della propria terra.

Ma sebbene l'uso dell'uva a capodanno sia più antico, l'usanza specifica di mangiarne esattamente 12 chicchi (uno per ogni mese dell'anno) si è consolidata più recentemente, influenzata anche dalla tradizione spagnola di fine '800. È il simbolo del tempo che viene scandito dal cibo: dodici bocconcini dolci per dodici mesi di salute e abbondanza.

Il brindisi e le bollicine

E il brindisi da dove viene? Una delle più diffuse origini etimologiche fa nascere il termine dal tedesco bring dir's, ovvero “lo porto a te” (inteso come il calice, il saluto). Furono i lanzichenecchi nel Cinquecento a diffonderne l'usanza in Italia.

Per quanto riguarda lo champagne, oggi un must, era fino a metà del XIX secolo un bene di estremo lusso, riservato alle incoronazioni e ai trattati diplomatici. È diventato il simbolo del Capodanno con la crescita della borghesia europea: servire un vino che "esplode" e trabocca era il modo più plateale per augurarsi un anno di abbondanza e gioia.

Altre lune, altri soli e altri calendari

Se il nostro Capodanno è scandito dal calendario solare e dalle riforme romane, esplorare le altre culture ci insegna che il "nuovo inizio" è un bisogno universale che parla lingue diverse, ma usa sempre il cibo come momento di aggregazione sociale:

  • Capodanno Cinese (Chunjie): celebrato in tutto l’Estremo Oriente tra fine gennaio e febbraio (la data varia a seconda delle fasi lunari) è la festa del ritorno a casa. Si mangiano i Jiaozi, ravioli la cui forma ricorda gli antichi lingotti d’oro, per propiziare la ricchezza.
  • Tet Nguyen Dan (Vietnam): coincide spesso con quello cinese, anch’esso varia con la luna. Il piatto sacro è il Bánh Chưng, una torta di riso glutinoso, carne di maiale e fagioli, avvolta in foglie di banano. La sua forma quadrata simboleggia la Terra e la gratitudine verso gli antenati.
  • Nowruz (Capodanno Persiano): cade il 21 marzo, ovvero l’equinozio calcolato con precisione astronomica. In Iran e Asia Centrale si celebra la rinascita della natura con il Sabzi Polo ba Mahi, riso alle erbe servito con pesce, parte del rituale dei "sette elementi" che portano fortuna.
  • Rosh Hashanah (Capodanno Ebraico): cade in autunno e invita alla riflessione. Il rito prevede fette di mela intinte nel miele per augurarsi un anno "dolce e buono", un gesto che ricorda incredibilmente l'usanza dei nostri antenati Romani.
  • Songkran (Capodanno Thailandese): si festeggia ad aprile con grandi battaglie d'acqua rituali. A tavola si serve il Khao Chae, riso rinfrescante servito in acqua profumata ai fiori, un omaggio alla fine della stagione secca.

Il capodanno è sentito in tutto il mondo, è la festa (oltre al compleanno forse) che è presente in tutte le culture. Al di là dei calendari, resta un fatto: questo accanimento globale nel celebrare un passaggio temporale ha qualcosa di profondamente umano e, a tratti, quasi comico.

Un giorno speciale

Ricordo una vignetta sul New Yorker che raffigurava due alieni di fronte alle celebrazioni di capodanno a Times Square. Uno commenta con una frase del tipo: “Non so perché, ma tutte le volte che il loro pianeta compie un giro completo attorno alla sua stella, danno tutti di matto.”

Eppure, quel "giro completo" ha senso solo se lo carichiamo appunto di umanità. Non dimentichiamo che l’avvento del nuovo anno è il momento in cui decidiamo cosa buttare via per ricominciare a costruire il futuro. E lo facciamo a tavola, con gli amici più cari.

Perché alla fine, che tu la sera di capodanno serva zampone con lenticchie, una cena romana o una cena fusion d’avanguardia, poco cambia finché lo fai in compagnia. C'è una canzone che, forse più di ogni trattato storico, riassume il senso profondo di questa attesa e questa condivisione. È "L'anno che verrà" di Lucio Dalla:

E se quest'anno poi passasse in un istante

Vedi, amico mio, come diventa importante

Che in questo istante ci sia anch'io

Buon anno, caro amico, che il tuo prossimo “giro di stella” sia ricco e gustoso!

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