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Tartine delle "Tre Sorelle" precolombiane

Pubblicato il:
Tipo di piatto: Antipasti
Ispirazione: USA
prep. 30 min. + cottura 1 ora

Una leggenda precolombiana narra che mais, fagioli e zucche siano gli spiriti di tre sorelle che si amano così profondamente da poter prosperare solo se piantate insieme, sostenendosi a vicenda, perché separate si indebolirebbero e morirebbero di solitudine...

Questa ricetta nasce come proposta per un Thanksgiving e intende rendere omaggio alle popolazioni native nordamericane (che in quel momento avevano ben poco da ringraziare) con una ricetta ispirata al mito delle Tre Sorelle e che utilizzi solo ingredienti della loro cultura... ma partiamo con la ricetta, a dopo le considerazioni storiche.

Ingredienti per un vassoio da circa 40 tartine

  • 2 tubi (1kg totale) di polenta pronta soda
  • 2 lattine (480/500g totali sgocciolati) di fagioli neri precotti
  • 2 o 3 cucchiaini di sumac in polvere
  • 2 cucchiaini di chipotle (o paprica affumicata non troppo piccante)
  • ½ zucca violina (500/600g prima della pulizia che sono circa 350/450g di polpa pulita)
  • 1 tazza di semi di zucca sbucciati e non salati (circa 125g)
  • 40 foglie di salvia (1 per ogni tartina)
  • qb sciroppo d'acero
  • qb sale
  • qb olio di semi di girasole

Procedimento

  1. Tagliare la zucca a cubetti molto piccoli (1x1x1 cm). Condire con olio, sale e sciroppo d'acero. Arrostire in forno ventilato a 200°C per 30-40 minuti finché non sono teneri e caramellati. Lasciar raffreddare.
  2. Frullare i fagioli neri con il sumac, la paprika affumicata e il sale. Aggiungere un cucchiaino d'acqua alla volta solo se necessario per ottenere una crema densa e spalmabile. Assaggiare e aggiustare il gusto (più sumac per più acidità, più paprika per rotondità, più sale per sapidità).
  3. Tostare i semi di zucca in una padella a secco finché non scoppiettano. Metterli da parte e appena non scottano tritarli grossolanamente con un coltello.
  4. In padella con olio di semi di girasole friggere le foglie di salvia (senza affollarle), scolarle e asciugarle con carta assorbente, salarle leggermente. Si devono ottenere delle foglie croccanti e aromatiche separate, non un mappazzone fritto...
  5. Tagliare la polenta in dischi/tartine di 1 cm di altezza, asciugarli con carta assorbente e tostarli sui due lati in padella con un filo d'olio (magari quello che avete salvato dalla frittura della salvia), devono diventare croccanti e profumati. A seconda della dimensione della padella/piastra ci possono volere anche 45 minuti.
  6. Assemblare il tutto: disporre le tartine di polenta sul vassoio, spalmando sopra ogni tartina circa un cucchiaio di salsa di fagioli, aggiungere due o tre cubetti di zucca caramellata, una spolverata di granella di semi di zucca e al centro una foglia di salvia fritta. Si possono mangiare anche freddi.

Il mito delle Tre Sorelle

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Il mito delle 3 sorelle: mais, fagioli e zucche
Il mito delle 3 sorelle: mais, fagioli e zucche

La storia delle "Tre Sorelle" è un meraviglioso esempio di saggezza agricola e simbiosi. Per molte culture indigene del Nord America (in particolare per gli Haudenosaunee, o Irochesi), queste tre piante non erano solo cibo, ma un sistema agricolo integrato e sostenibile.

  1. Mais (la sorella maggiore): Piantato per primo, forniva un sostegno robusto su cui i fagioli potevano arrampicarsi.
  2. Il fagiolo (la sorella generosa): Piantato intorno al mais, si arrampicava sul suo fusto. I fagioli sono legumi e hanno la capacità di fissare l'azoto nel terreno, fertilizzando così il mais e la zucca, che sono piante esigenti.
  3. La zucca (la sorella protettiva): Piantata alla base, con le sue grandi foglie larghe ombreggiava il terreno, mantenendo l'umidità, impedendo la crescita delle erbacce e scoraggiando i parassiti.

Insieme, non solo si aiutavano a vicenda (agricoltura complementare), ma fornivano anche una dieta nutrizionalmente completa: carboidrati (mais), proteine e fibre (fagioli) e vitamine/minerali (zucca). Questa ricetta è un omaggio a questa antica e geniale collaborazione.

Si tratta inoltre di un omaggio filologico: tutti gli ingredienti principali (Mais, Fagioli, Zucca, Girasole, Salvia, Peperoncini, Sumac, Acero) sono nativi del Nord America e facevano parte della loro cultura gastronomica. Abbiamo usato l'olio di Girasole (pianta nativa) al posto dell'olio d'oliva o del burro (non esistevano ulivi né latticini). L'acidità è data dal Sumac (una bacca nativa) e non dagli agrumi (come il lime, che anche se viene di solito associato al centro America, è in realtà portato dall'Asia). La nota affumicata viene dalla Paprika (ottenuta da peperoncini, anch'essi nativi e largamente utilizzati) e quella dolce dallo Sciroppo d'Acero, l'antico e principale dolcificante di quelle terre.

Riflessione storica sul Thanksgiving

Portare o offrire questo piatto a una cena del Thanksgiving è un gesto di consapevolezza. Se da un lato si celebra il raccolto, per molte popolazioni indigene del Nord America questa festività è invece detta Day of Mourning (“giorno del lutto”), in ricordo della colonizzazione che hanno subito, delle pestilenze che li hanno decimati, della violenza patita e della distruzione di gran parte delle loro culture.

La colonizzazione del Nord America fu una vicenda complessa e drammatica. Le stime della popolazione che abitava i territori degli attuali Stati Uniti e del Canada prima della cosiddetta “scoperta dell’America” sono molto discordanti, ma è ragionevole parlare di almeno qualche milione di persone — dai 2 milioni delle stime più conservative fino ai 18 milioni di quelle più alte. A partire dai primi contatti con gli europei, portatori di malattie per le quali i nativi non avevano né anticorpi né immunità di gregge, la popolazione venne decimata nel senso letterale del termine: all’inizio del 1600 era sopravvissuto circa il 10% degli abitanti originari. E non avevano ancora incontrato i colonizzatori che li avrebbero invasi...

Quando nel 1620 i Pellegrini sbarcarono dalla Mayflower e scelsero di insediarsi in un luogo che chiamarono Plymouth, non approdarono in una terra vergine: si trattava del villaggio Patuxet, appartenente alla popolazione dei Wampanoag, i cui abitanti erano stati tutti uccisi da un’epidemia — probabilmente di vaiolo o leptospirosi — diffusa dai contatti con gli europei tra il 1616 e il 1619. I Pellegrini arrivarono letteralmente in un cimitero, e rischiarono di morirvi anche loro, impreparati com’erano alla coltivazione di quelle terre.

Per loro fortuna, il capo Wampanoag Massasoit, minacciato dalla popolazione rivale dei Narragansett, che cercava di approfittare dell’epidemia per invadere le sue terre, vide nei Pellegrini dei potenziali alleati militari, soprattutto perché possedevano armi da fuoco. In cambio del loro supporto armato, i Wampanoag — tramite Tisquantum (o Squanto), l’unico sopravvissuto del villaggio di Patuxet — insegnarono ai coloni a coltivare quella che era stata la loro terra per sopravvivere.

Il “Primo Thanksgiving” del 1621 non fu dunque una semplice festa di amicizia tra due popoli, ma la celebrazione formale di un patto politico e militare e di mutua difesa.

E dopo cosa successe? Quale è la situazione attuale dei popoli nativi?

La storia della colonizzazione prosegue nei secoli successivi, ed è purtroppo una vicenda segnata da violenze e soprusi, spesso sistematici, avvenuta in un’epoca di scarso rispetto e scarsa consapevolezza umana. È inoltre una storia che, per lungo tempo, è stata raccontata quasi esclusivamente dal punto di vista dei colonizzatori — basti pensare al mito del Far West.

Si consideri che, tre secoli dopo l’arrivo dei primi europei, agli inizi del Novecento, i censimenti registravano soltanto circa 350.000 persone dichiaratamente di discendenza nativa americana tra Stati Uniti e Canada, a fronte dei milioni che popolavano quei territori prima dell'arrivo dell'uomo bianco.

Oggi, la parte di popolazione di questi due Paesi che si identifica come di discendenza precolombiana conta oltre 11 milioni di persone. I tempi sono cambiati: esiste in generale una maggiore sensibilità e rispetto da parte della popolazione bianca, e una più forte consapevolezza identitaria tra i discendenti dei nativi.

Significa che quella che fu di fatto — e de jure, almeno negli Stati Uniti fino allo Snyder Act del 1924 — una forma di apartheid ha fallito nel suo obiettivo finale. Un aumento demografico così significativo rappresenta un segno di straordinaria resilienza e di rinascita culturale. Tuttavia, la lotta contro le conseguenze di quel sistema — la povertà, lo status giuridico spesso ambiguo e la disuguaglianza sistemica — è una battaglia che le nazioni native stanno ancora combattendo oggi.

Cucinare ricette come questa, usando ingredienti autoctoni con rispetto e consapevolezza, appunto, è un modo per onorare attivamente quella memoria e lo sforzo ancora in atto di quei popoli, riconoscendo chi ha coltivato e abitato quella terra per primo e usando la cena come un momento di riflessione su una storia complessa, che va oltre la semplice celebrazione o condanna.

Come finisce questa storia?

Un’ultima riflessione, visto che siete arrivati fin qui. Per i popoli nativi nordamericani, la terra non era una merce da possedere: il concetto di “proprietà terriera” individuale era per loro del tutto incomprensibile. La terra era un’entità vivente, un “parente” a cui si era legati e da cui si dipendeva, un dono da custodire con rispetto per le generazioni future.

Se questa loro visione del mondo — basata sulla simbiosi, come quella delle Tre Sorelle, e sulla reciprocità, non sul possesso, sull’estrazione e sullo sfruttamento — fosse stata quella dominante, invece di quella dei Pellegrini europei, forse oggi vivremmo in un mondo più equilibrato, meno segnato dalle crisi ecologiche. Prova a immaginare: se gli europei, invece della terra, avessero “rubato” la cultura dei nativi — il loro rispetto per la natura, il senso di interdipendenza e di misura, di fatto rispetto dei beni comuni, ecologia e sostenibilità ante litteram — forse avremmo costruito un mondo diverso. Ma non è andata così, come ben sappiamo.

Ciò che però possiamo ancora fare è tentare di imparare almeno a posteriori da quella saggezza, riconoscere il valore di quella visione e provare, anche nel nostro piccolo, a farne parte. Condividere questo piatto è un gesto simbolico per pensare a questa lezione e nel contempo onorare e ricordare popoli e culture che hanno rischiato l'oblio.